Il fantasma del presente
Trascorre inesorabile la nostra esistenza, avviata com’è ad un fatale, terribile ed improrogabile finire, e ciò che chiamiamo la nostra vita di continuo e per il tempo che qui ci è concesso, ci offre attimi, cose, persone, rumori e silenzi: ciò che chiamiamo presente.
Presente in cui ci troviamo immersi e immessi come se lì in quel brandello, di volta in volta, tutta si giocasse la partita e, con essa, intera la scommessa. Presente, tuttavia, che mentre si offre dolceamaro, affollato ed affogato, colmo di sé come goccia d’acqua, piccola o grande, che più di quella misura non contiene, proprio allora subito si nega, condannato com’è a scomparire, a lasciare il posto al nuovo attimo che incalza, all’altro brandello che trascorre.
Ed ecco allora che proprio quel “presente” in cui ci illudiamo di viver sempre la nostra vita, dal suo belante soffio al suo ultimo rantolo; proprio quel presente che crediamo essere unica possibile “presenza”, si mostra nella sua vera e spaurente consistenza, anzi nella sua inconsistenza: si mostra cioè per quel che imperdonabilmente è, desolata e desolante “assenza”, l’unica cosa che non ci è consentito di vivere, per sua natura inafferrabile, l’attimo, l’ora o il giorno troppo rapidamente trascorrendo tra ciò che è stato e ciò che sarà.
Questa è la terribile inconsistenza del presente, la sua inesorabile assenza, questo suo nascere per subito morire con sé travolgendo persone e cose, sensazioni e sentimenti.
Cosa rimane altro di un attimo che si vive, unica dimensione del presente, se non il suo appartenere già al passato? E cosa di un attimo da vivere se non il suo appartenere ancora al futuro? Lì, nel “già” e nell’ “ancora”, sta la risposta, perché soltanto rimane la memoria e il desiderio; solo lì il presente vive in ciò che tale non più chiamiamo e cioè nel ricordo di ciò che è stato e nella speranza di ciò che sarà.
E dunque proprio ciò che il presente esclude, il presente incarna, la sua imprendibile inconsistenza divenendo consistenza solo nelle tracce di ciò che è morto e nei presagi di ciò che dovrà ancora nascere.
Così svuotato, il presente mostra il suo ineffabile volto, fatto di assenza e di illusione, mentre concreti e reali si svelano il prima e il dopo, quei mucchi di momenti che contemporaneamente si accumulano e si assottigliano; così effettive “presenze” niente altro sono che i fantasmi che con noi vivono, ricordi e speranze, anch’essi imprendibili perché, e di nuovo bisogna dirlo, “già” bruciati o “ancora” non accesi.
Proprio in quella sottilissima soglia che separa il presente come simulacro inesistente e i fantasmi del passato e del futuro come uniche possibili “presenze”, proprio lì, dicevo sosta con incredibile attenzione la pittura di Vincenzo Rizzo che va disseminando i suoi segni come stupende trappole per catturare quel “presente-assenza” in cui la scommessa dell’esistenza si gioca e si perde e quelle “assenze-presenti” in cui soltanto una tale esistenza si vive e, forse, si vince.
Eccolo lì il presente con la sua attenta precisione, ma anche con la sua incredibile fralezza; eccolo scarnificato ma al tempo stesso in carnato in ciò che soltanto può essere, ricordo e desiderio di un attimo appena vissuto e dunque morto e dunque ancor vivo solo negli oggetti, nelle cose e nella memoria, “altro” vissuto; giudizio ed abbandono che si fa vera e propria rappresentazione, metafora dell’invisibile che al visibile sopravvive.
E la scena e la rappresentazione che è soprattutto quella dell’amore qui dipinto nella sua totalità di carne e di spirito, di ricordo bruciante e di bruciante attesa.
Sono letti disfatti, morbidi cuscini già ciancicati o non ancora sfiorati, lenzuola in furioso e naturale drappeggio, corpi abbandonati in un’offerta o già sofferta nudità.
Sono questi i “segni dell’amore” che nella loro immobile consistenza disegnata si fanno voci, rumori, odoro, sudori, pudori, e vanno raccontando di abbracci e possessi, di languidi abbandoni e di grandi sfinimenti, di sussurri e grida.
Qui tutto si è compiuto o tutto è ancora da compiere, qui abitano il ricordo e l’attesa.
L’artista, dunque, parte dalle cose, rese con realistica presenza, parte cioè dal visibile ma ad altro la sua esatta figurazione si appunta, sicché l’immagine perde la sua reale con consistenza procedendo per successivi gradi di astrazione: dal cuscino al corpo, dal corpo all’attimo vissuto e quindi al ricordo, all’attesa- dal presente al passato e al futuro; dal silenzio alle voci; dalle assenze alle presenze.
Ad una simile “messainscena” l’artista messinese perviene grazie ad un ricco bagaglio espressivo, ad un perfetto possesso dello strumento linguistico; la sua pittura è morbida, preci sa al tempo stesso dominata una voIontà compositiva e dominante la stessa mano. È, il suo, un lavoro che si infittisce negli sfondi con i quali va creando più che gli interni la sensazione di essi: il segno va tramando una sorta di quinta ammuffita dal tempo, silenziosa testimone dei fatti si inspessisce fin quasi a pervenire al groviglio e al nero.
Da qui il sapore di una traccia o di un presagio che anima queste tele, la loro sicura consistenza e la loro imprendibile possibilità, il loro ferire il presente, mettendolo a nudo e, quindi per lui farsi ferire.
Sono proprio opere ferite queste di Rizzo, in cui le cose parlano di una invisibile presenza umana, e i corpi umani parlano di una invisibile ma straziante compagnia: parlano di lei, la terribile solitudine che accompagna ogni attimo e parlano di lui, l’insaziato bisogno di non più esser soli.
Parlano del desiderio di fermare l’attimo ma anche della dolente di irrimediabile finire, a ciò portando l’esser l’attimo già finito.
Ecco allora che la metafora ulteriormente dilaga fino a sconfinare non soltanto sulla dolorosa cognizione del presente, inesistente brandello tra passato e futuro, ma sulla stessa umana condizione, lacerata sempre da un “altrove”, cioè a dire continuamente conficcata tra un ricordo e un’attesa.
Dilaga, infine, la metafora, sul senso del “finire” che ogni attimo della vita accompagna; sul suo stesso impietoso non durare.
Lucio Barbera