Ascoltando il “Corpo spirituale”
Eccolo nuotatore dentro il ventre della madre, rannicchiato e solenne, minuscolo e gigante nei limiti dei contorni, bagnato e cieco (ancora) pronto a capovolgersi per prendere la via della nascita. Finalmente libero. Finalmente fuori. Finalmente a respirare l’aria che lì non c’è e che arriva attraverso le cellule del cordone ombelicale. Ma l’animo irriverente si chiede: “perché mai dovrei abbandonare questa condizione di perenne attesa?”. Forse i nove mesi si possono mutare in secoli e la nascita (rinascita) spostarsi all’infinito. In fondo c’è sempre un ventre, una vagina, un condotto, un labirinto disposto ad accoglierci. Enzo Rizzo non lo dice. Ci scherziamo sù e il sorriso invade il “Fetus” che schizza con il suo sangue ancora liquido intorno al “corpo” per dare senso alla “terra” mai sazia di sacrifici, anche umani. I primi a dire “basta” furono gli ebrei che pensarono di bruciare solo il prepuzio e non la vittima immolata sul fuoco della volontà di elevazione. Quel pezzo di carne diviene fumo e sale verso l’alto in una colonna di esigenze mascherate per un tentativo di assoluto.
In fondo Enzo Rizzo, vuole raccontare il suo innalzarsi, partendo dal di dentro; dalla placenta; dal liquido amniotico; dal ventre. Sono tele in cui la verità è dissacrata e la realtà fotografata per contatto nel vortice delle ipotesi: siamo vivi? Siamo veri? A chi apparteniamo? Ci apparteniamo? “In principio era l’uomo” (dice il titolo di un quadro) e il verbo si è fatto carne. Se c’è il Cristo, in quelle tavole, non so dire. Certo c’è un sentimento religioso e rispettoso dei misteri della vita. Il “corpo” si putrefa, ma a Enzo non importa. Lui si pone prima della morte. La macerazione dalla quale si stacca lo spirito sembra non appartenergli. È la prenascita che lo affascina: quel mondo di liquidi e ombre; di cordoni ombelicali e placente; di attese e patemi. Si tuffa per intero senza esitazione alla ricerca della sua rigenerazione. Ma il percorso è irto di pericoli, di ostacoli, di trabocchetti. C’è il mostro in agguato. C’è l’enigma; l’ipotesi della follia; la coda del diavolo a complicare le cose. È un percorso iniziatico che deve essere condotto senza la guida del maestro che può solo assistere e consigliare qualche pagina del Vangelo o della Turba philosophorum (per esempio), poi la strada è dell’indagatore (artista). Uomo in cerca di sé e della verità.
In quei corpi che scrivono la natura e gli enigmi; in quei feti (isole felici di mondi lunari) si modella ancora il ritmo dell’esistere.
Ancora Dio non l’ha prodotto sul volto di creta e lui cerca di non sopraffare gli eventi. Per questo la terra è madre della carne; per questo l’acqua circonda il magma (corpo); per questo il fuoco ha generato l’incontro delle cellule. Ma l’aria non è ancora conosciuta. E se vivi (e vivi) dentro non sai quanto soffio debba donarti il Padreterno per rigenerarti.
È un soffio ripetuto, già assaporato, già inteso che ha qualche cosa in più e di diverso. È il secondo soffio. Quello prodotto dal tuo pneuma. In fondo, una volta concluso l’itinerario, se hai saputo cosa vuol dire essere simili a Dio. Se hai rigenerato te stesso, finalmente farai la distinzione fra Dionisio e Cristo. Non più il caos primordiale dell’orgia rituale per uno sprofondare negli inferi, ma l’evoluzione attraverso la transustanziazione. Anche qui il ritorno al “corpo” dà ragione della grandezza della “terra”: è l’antropofagia sacra, simbolica ed eletta, significa l’appropriarsi della stessa sostanza da cui hai tratto origine. Ritorni in te stesso nella comunione con la divinità.
E come il ricercatore accanto all’athanor aveva l’inginocchiatoio per invocare la Vergine, così Enzo Rizzo s’immerge nell’orazione muta dell’impossibile viaggio. Forse non farà mai esplodere la sua natura (ancora catturata nel ventre eletto della generazione) al di là dei limiti e dei confini, se non avrà imparato a distinguere fra l’odore dell’acrilico e il profumo di rosa. La strada è lunga. Il traguardo lontano. Il domani nascosto in una placenta.
Non più e solo contenitore di sensazioni, umori e palpiti, ma di una psiche, dell’anima in memoria della quale si scrivono le pagine partendo dal nucleo centrale della cellula.
Quell’incontro dei due diviene unicum e ha ispirato la poetessa russa Evelina Schatz, dai soggiorni meneghini che con amore e intelligenza, passione e ironia scrive nel catalogo: “Ecco. Il silenzio. Superfici sempre più ostiche, meno levigate, fino alla scarnificazione del colore ma anche della violenza degli elementi plastici smarriti nella caduta del corpo”. Il silenzio: un punto di partenza per la definitiva rigenerazione. Dalla nigredo il passo richiede magici traguardi nella convinzione che la strada non è una, ma porta a un unico vertice. Oltre il quale il limite del tempo (i nove mesi dilatati) ha un significato parallelo a quello dell’eternità.
Crisostomo Lo Presti