Autodafé di Enzo Rizzo
L’artista è solo.
Il solitario è mistico, quindi eretico. L’arte oggi, come ogni chiesa, pretende obbedienza e sottomissione esclusivamente al suo stile, quello vigente, naturalmente.
Per nulla accomodante, Enzo Rizzo-l’eretico è costretto tuttavia a qualche compromesso, ma nell’insieme egli rianima e riabilita la “fede” scalzandola. Il solitario a suo modo è un combattente. Ma anche visionario. Vuole essere folla e diventa folla. Nonché creatore di sé perpetuo, fabbricandosi continuamente altri volti, moltiplicando i suoi enigmi.
L’artista è solo,
si è già detto. Sempre all’avanguardia della solitudine come l’Ebreo. Nessuno scetticismo. Profeta dell’oscurità, poeta del lugubre, che altro potrebbe fare non sapendo legarsi a un presente rassicurante o a un avvenire ordinario. Crede nell’avvenire dei suoi rimpianti. Si droga di rimpianti fino a non averne più. Nel frattempo ne fa uno stimolante. Maestro di quell’arte di pensare contro se stessi che è dei grandi della letteratura dell’Ottocento, Rizzo è l’animale metafisico, l’osservatore del lato notturno del nostro quotidiano avvolto nel manto scuro, quando non è ripugnante.
Nato come tutti noi in preda alla febbre del visibile, oggi predica la liberazione da sé e da tutto, tagliando le sue radici, diventando, ogni volta, straniero verso il sé precedente, quindi straniero metafisicamente: cioè l’artista per eccellenza: cioè privo di ogni certezza. Raggiunge così l’iniziazione alla vertigine che secondo Cioran presuppone il nostro esistere o meglio la tentazione di esistere.
… Pittura drammatica quella di Enzo Rizzo. Un lungo esercizio dell’esorcismo contro la paura…
È Leonardo che descrive il sonno dell’artista, il nostro, che tormenta per tutto il lungo giorno e più spesso il pomeriggio fino a notte fonda, la grande tela, quasi volesse con la forza della pittura esorcizzare l’oggetto della rappresentazione fino a distruggerlo, fino a distruggersi, lasciando una traccia drammatica del proprio mestiere: materia calda, pulsante, enigmatica.
Ma ecco Leonardo:
“Ancora ho provato essere di non poca utilità, quando ti trovi allo scuro nel letto, andare colla immaginativa ripetendo i lineamenti superficiali delle forme per l’addietro studiate, o altre cose notabili, da sottile speculazione comprese”. Oltre la sponda – il pubblico, quel gigantesco nulla uscito dal grembo dell’epoca dell’apatia riflessiva. Oltre la sponda – il fantasma astratto del pubblico, quel santo livellatore contro cui combatte ogni artista. Vi ricordate De Kooning che grida a Warhol: “Voi state uccidendo la pittura.”
C’era New York, c’era una festa, c’era una folla elegante e afasica. E non era vero. Non è così semplice. La fotografia non aveva ucciso l’opera d’arte, il cinema non aveva ucciso il teatro, il concerto rock non aveva ucciso il teatro in musica. Niente uccide la pittura, così come nessuna tecnologia uccide la scrittura. E mentre i musei napoleonici si dilatano a dismisura, arrivano in aiuto i nuovi mezzi ottici: 50mila immagini in un’ostia.
Ma no, ma no! Nulla muore. La metamorfosi è il principio. Dalla materia ali energia, fino alla scoperta del Nulla che e il nostro Non-sapere. Cresce man mano che il sapere aumenta. Sarà questo l’infinito’? Dal nulla il dolore della nascita Quindi la conoscenza, che è dolore. Nel luogo fisico del nostro dolore nasce l’arte come esperienza della vita filtrata attraverso un temperamento particolare.
Nascita di un artista. Quindi lo scontro perpetuo con l’infinito.
Vera pittura la sua, quella di Rizzo. Quali ne sono le origini dolorose? Un giorno lo racconteranno i biografi, quando la sua vita nell’arte sarà compiuta. Ora e presto per tirare le somme. Ma indagare, studiare cercare ci mette subito in contatto inquietante con il demone meschino del l’ardore: mai Rizzo distoglie i suoi pensieri da quella genesi dolorosa che e I’enigma da cui l’arte nasce, e percorre i labirinti che non lo portano affatto fuori dal caos di se stesso. Tuttavia quella porta che resta chiusa agli occhi del reale lui tenta di aprirla: conosce il mistero.
Mistero della menzogna dell’artificio che lo salva dalla banale morte nel comodo orrore del buon senso.
Nelle sue grandi tele ad olio la presenza di forme che vacillano nell’ombra alla soglia della percezione costituiscono la facoltà di evocazione dell’enigma. Abita i paesaggi dell’anima: natia Sicilia, Etna: acqua terra fuoco.
Mentre gli manca l’aria, l’artista respira con affanno come un poeta soffocato da un’emozione costante che lo travia. Rizzo così produce per asfissia le sue strane immagini, intime e mostruose, impegnato nel dibattito filosofico sulle questioni dell’origine e dei destini finali. E mentre i grandi maestri si consumavano a esorcizzare il mostro che è donna, Rizzo, la sua specie di pulsione al mito la rivolge all’uomo, idolo e mito, quindi ali io delle arti. Mentre posa i colori come un dipintore rinascimentale, torsi e ventri maschili, ora idoli ora mostri, diventano feti-menti, cervelli-pulsar, cuscini-killer, sovente protagonisti indefessi. E l’artista che crede nel gesto/segno della pittura, inscena un corpo a corpo di soffocante rabbia, un vero duello tra pittore e il suo altro, tra pittura e il corpo. Antica danza-battaglia nella storia dell’arte classica. La fascinazione rizziana per il dramma (del nostro tempo) – costante classico -romantica – è rafforzata dall’ossessione di immagini di violenza velata del nostro tempo e di quella passione sempre sproporzionata che manca loro. La gente vuole il quadro piccolo da attaccare sopro il sofà per lenire l’insofferenza.
Oppure, gli altri, vogliono sostituire la pittura con l’oggetto-simbolo: l’estetica duchampiana e esistenzialista da Kierkegaard in poi. Ma nessuno di questi desideri coincide con il bisogno espressivo del pittore.
E al di là dei nostri gusti e al di là dei vaneggi mercantili, al di là di ogni fanatismo intellettuale, resta il mondo caleidoscopico dell’espressione e la passione propria, che è la sua forza, dell’artista.
Così che la figurazione, nell’ambito della ricerca più ampia, recupera nuova sostanza, nuova ragione.
Mentre il gigantesco kitsch nella sua perversione etica/estetica ottunde gli uomini inconsapevoli, orfani dell’assoluto e figli del vuoto dell’età contemporanea.
Ed ecco che a vincere è la ricerca di grande valenza poetica, perché la passione, le sue istanze filosofiche (non c’è l’arte senza filosofia) diventano carne e sangue di figure concrete ma enigmatiche, con tutta la loro angoscia e perplessità. Rizzo è anche un intenso poeta dell’Eros.
Abolita la prospettiva, la sospensione metafisica è acquatica, e la figura – elemento organico – emerge dal liquido miotico: il fondo che è coprotagonista. Nelle opere recenti invece diventa un vero protagonista, di sé dimora illuminata oppure provvisoria sostanza che tende all’astrazione. Smesse le stanze al limite del simbolismo e del surrealismo, i luoghi diventano mentali, fluidi, i letti si trasformano, si corrompono e il nostro Prigioniero, dapprima di sé, poi delle stanze, quindi del quadro, diventa un vero carcerato. Sì! Tira aria di carcere in queste tele di irrespirabile sostanza. E mentre lo spazio del carcere-quadro si dilata, il lenzuolo diventa placenta, il cuscino-cervello/feto, attraverso le metamorfosi nell’esercizio della prigione-grande-città, tende a diventare la Mente per macinare solitudine e sceicherarla con la polvere cosmica. Nel frattempo cadono i muri al rallentatore, e nello squarcio felliniano della prova d’orchestra, nel buco nero dello spazio della tremenda stanza, camera-da-letto-del-feto, sta la carne umana appesa come un lenzuolo.
Non c’è nessun riferimento a Goia Van Gogh, Soutine o Bacon. O forse sì. Non di un bue squartato si tratta, ma dell’uomo nella sua interezza: carne-e-spirito. Lo squarto è la frontiera dentro di lui. La sacralità della carne umana si ripresenta in termini laici del Rinascimento e della nuova coscienza planetaria (oggi Club di Budapest). Questa carne-come-lenzuolo è piuttosto un uomo-sindone.
Ci ricorda Malevic: il suo quadrato e la sua croce filosofici si librano in alto, nello spazio.
Così il cuscino di Rizzo, che è madre, ma forse anche occhio di Dio, vige sul vuoto assoluto. Sull’Universo senza dimora. Malevic non aveva resistito a tanta solitudine della scoperta: spiritualità e quantistica. Torna al ritratto. Visceralmente reale.
Ed ecco Rizzo che tenta il rimedio a tanto repentino tradimento del Maestro: appende lì, in alto nel cielo cosmico, la sua carne spalancata, idealmente suprematista, ma baconiana, carne dell’Universo al macello.
“Fetus” dell’88 apre appunto questo periodo di carneficina. Seguono feti-fagioli.
Forse connessione spontanea o indotta dalla nuova cultura che tende ad un rapporto più stretto fra l’uomo e la natura, la mente e la materia dove tutto si è evoluto scaturendo da un’unica matrice.
Seguono poi gli ex-voto, offerta votiva dell’artista: dare, donare, offrire, soffrire cieco, mediato. Il cuore è un archetipo.
Non più feto-cervello (Solaris di Tarkovskij), il cuore-fagiolo è anche genitale, nello stesso tempo. Fagioli-stelle in luogo delle macchie di Rorschach.
Negli ultimi anni 1995-’98, Enzo Rizzo, classe 1958, cattolico per aver calpestato il suolo italico papale, passa dall’eucarestia all’epifania. Non è un greco. Ma da El Greco che cambiò la geografia – il vortice dell’ascensione in verticale, E non è un gioco enigmistico. C’è un furore religioso nella pittura di Rizzo. Come lo è in Malevic. La filosofia non è sempre greca.
Il furore non è mai laico. Tuttavia il nostro non è distante dai Greci. Sicilia in testa.
Lo spirito new-age che vago e informe dilaga nel mondo, non lo ingloba, perché il pensiero dell’anima, la sua, è piuttosto taoista, quindi forte e indipendente da millenni.
Ma nell’attraversamento delle culture diverse del pensiero sta il grande, voluttuoso e sofisticato teatro cattolico. Voluttà e tormento – così la pittura di Rizzo: bianco del fondo, blu freddo, sei passi di rosso, rosa della pelle umana, ocra degli ori chiosali, gialli caldi e smorti, terra di Siena, terra bruciata, verdi dei sogni oscuri. Vera pittura, quella di Rizzo. Ma nessuna traccia dell’Accademia. O sì?
Dev’essere! Pure “un” luogo dove uno possa ritrovare intatte le immagini che, ed è importante, esistono anche fuori di noi. Di certo c’è una sorta di maniera dietro le energie oscure della sua pittura, una certa solennità.
Scavare nella lingua una specie di lingua straniera e confrontare l’intero linguaggio con il silenzio, farlo oscillare nel silenzio.
Ecco Il silenzio. Superfici sempre più ostiche, meno levigate, fino alla scarnificazioe del colore ma anche della violenza degli elementi plastici smarriti nella caduta del corpo.
Ma anche nella nuova logica degli ultimi lavori è sempre presente una polarità drammatica fra vitalismo erotico e senso mortale, come se la plenitudine stremata della pittura fosse emblema di una coscienza della preferenza di cui gli ex-voto ne potessero essere i talismani ultimi possibili. E tutto si svolge nella “concezione antica del tempo, come modo del pensiero o movimento intensivo dell’anima: una sorta di tempio spirituale e monacale” (Deleuze). Qual è quindi il problema più alto che assilla l’opera di Rizzo?
Riconciliare l’inumano con l’umano. E come il Bacon delle grandi figure, Rizzo non trova il modo per riunire due figure in uno stesso quadro. E finalmente ne fa a meno. Dei corpi restano ombre. È attraverso la nostra ombra che ci conosciamo, noi e i nostri corpi. Nell’oscuro, Rizzo vede una premessa da cui uscirono i chiaroscuri, i colori e anche la luce.
Raggiunge così l’iniziazione alla vertigine che presuppone il nostro esistere, o meglio la tentazione di esistere. Si è già detto.
Evelina Schatz